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Dal BDSM alla teoria Queer: per una politica dell'alterità dei corpi e degli stili di vita di Lancelot inserito da slaveromano71 - 27/08/2020 - Letto 1539 volte. |
Dal
BDSM alla teoria Queer: per una politica dell'alterità dei corpi e degli stili
di vita.
(Il BDSM: pensavamo fosse queer invece era un calesse)
di Ang Lee Lancelot*
Avvertenze
per la lettura: in questo articolo si suggerisce una chiave assolutamente
soggettiva e personale di contatto e di evoluzione comune fra la sottocultura
BDSM, la teoria Queer, il bioterrorismo di genere, il transfemminismo,
attraverso la “rilettura” di quattro opere letterarie, quasi a legarle,
attraverso un filo conduttore comune, caratterizzato dall’affermazione dell’alterità
dei corpi e dei generi: il Freddo e il Crudele di Gilles Deleuze, Terrore Anale
di Paul B. Preciado, Fare e disfare il genere di Judith Butler e S.C.U.M.
Manifesto per l’eliminazione del maschio, di Valerie Solanas. "Con
Sade e Masoch la letteratura serve a nominare non il mondo, in quanto già
creato, ma un doppio del mondo, in grado di raccoglierne la violenza e
l'eccesso. Si dice che quanto di è di eccessivo nell'eccitazione viene in
qualche modo erotizzato. Da ciò deriva la capacità dell'erotismo di fungere da
specchio del mondo, riflettendone gli eccessi, estraendone le violenze,
pretendendo di "Spiritualizzarle" nella misura in cui le pone al
servizio del senso". Con queste parole, nel saggio "Il Freddo
e il Crudele", Gilles Deleuze affronta i temi del Sadismo e del
Masochismo, partendo dagli autori a cui si deve l'etimologia dei termini: il
Marchese Donatien Alphonse François de Sade, e il barone Leopold Ritter von
Sacher-Masoch. Eppure, il BDSM, cosi come noi lo conosciamo, nasce piuttosto
dallo straordinario contributo offerto verso la metà degli anni '80 dalla
comunità Gay Leather americama, in particolare con David Stein che coniò il
codice: "Safe, Sane and Consensual" (SSC), traducibile in
italiano con ''Sicuro, Sano e Consensuale''. Con lo scopo, per citare lo stesso
Stein, di "distinguere il tipo di S&M consensuale a cui ero
interessato da quello abusivo, criminale, nevrotico e autodistruttivo
generalmente associato con il termine sadomasochismo." E' da questo momento storico in poi che il BDSM, inteso come
insieme di pratiche sessuali e di dinamiche relazionali basate sulla
dominazione e la sottomissione (l'acronimo verrà coniato solo negli anni '90)
acquisisce velleità comunitarie, rinvenibili ancora, a stretto giro, qualche
anno dopo (probabilmente nel 1994) con l'utilizzo della "triscele",
un simbolo sotto cui l'insieme delle
persone praticanti il BDSM come stile di vita o attività sessuale potessero
riconoscersi. Il
BDSM non nasce col sadomasochismo, non nasce col Bondage, non nasce nemmeno con
il piacere associato dal desiderio di dominazione o sottomissione. IL BDSM
nasce da una vocazione comunitaria, dal desiderio di un manipolo di persone di
affermare la propria "alterità" sessuale, alterità negli stili di
vita, alterità nelle modalità relazionali, alterità nel vivere attraverso il
proprio corpo, in modo peculiare, il piacere. Il privato, come sostenevano le attiviste femministe alla fine degli anni
’60, è politico e il riconoscimento identitario delle nostre modalità
relazionali è essenziale per garantirne la possibilità di espressione, anche in
senso giuridico e sociale. In senso sociale, per lo stigma che spesso deriva nella
considerazione che l’opinione pubblica ha nell’impattare con stili di vita e
pratiche sessuali assai poco “convenzionali”, o “rivoluzionari” rispetto ai
modelli relazionali eteronormoconformati prevalenti. In senso giuridico, per i
risvolti non di poco conto rispetto al “comune senso del pudore” e ai limiti e
gli spazi di libertà e diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso. La libertà sessuale è un bene comune ma “la diversità
sessuale” è un bene intangibile che ha bisogno di una costante azione di
tutela, anche qui da noi, dove apparentemente la libertà individuale, in
materia di comportamenti sessuali, non sembrerebbe incontrare, come in altri
posti del mondo, limitazioni dettate da religioni di Stato ma in cui pure
l’influsso della censura e la tendenza ad imporre comportamenti improntati a
modelli di vita tradizionali, o orientati ad un non meglio precisato concetto
di “normalità” (si pensi all’attualissimo tema del “gender” e ai diritti di autodeterminazione
dell’identità di genere o, ancora, ai diversi modi di amare e di vivere le
relazioni proposti dalle diverse forme delle “non monogamie etiche”). Eppure, nonostante i propositi iniziali, la vocazione
comunitaria del BDSM sembra essersi persa per strada, azzoppata dai processi di
assimilazione ed assuefazione nei modelli relazionali prevalenti. Ed è cosi
che, nell’era delle “Cinquanta sfumature”, il BDSM “normalizzato” fa meno paura
ma perde anche quella sua capacità rivoluzionaria e libertaria contro l’omologazione
dei corpi, dei pensieri, delle pratiche di vita, dei diversi modi di provare
piacere. Il BDSM non si pone più, quindi, come l’ultima frontiera del “capitalismo
sessuale”, piuttosto diviene spesso ostaggio della necessità del “capitalismo
sessuale” di trovare nuove forme di sperimentazione di quel regime di vita che
Paul B. Preciado in “Testo Tossico” chiama “regime farmapornografico”, attraverso
il quale il sistema tecno – capitalista fa affari, anche con la sessualità, creando
desideri. Attraverso la “rilettura” che qui proponiamo delle opere di
Gilles Deleuze, di Paul B. Preciado, di Judith Butler e di Valerie Solanas possiamo
quindi avventurarci nel viaggio alla ri-scoperta dell’alterità, per la
ri-costruzione dell’identità (sessuale, di genere, di comportamento), per la
ri-definizione dei ruoli di genere, scoprendo - fra i tanti elementi comuni che
affiorano dalla lettura dei testi – la loro straordinaria attualità nel
dibattito politico occidentale odierno. Una rilettura che ci porta a
focalizzare l’attenzione soprattutto sul tentativo comune di sviluppare una
politica di “alleanza” di corpi e vite che non si riconoscono nella politica
dell’assimilazione al mainstream della società eteronormoconformata. Non
solo “il personale” – nel senso di come parliamo, ci muoviamo nel mondo,
vestiamo, ci approcciamo nelle relazioni, educhiamo i figli – “è politico” ma
anche “il sesso è politico”, sembrano echeggiare all’unisono Deleuze, Preciado e la Butler, tanto quanto la
Solanas. Lo
aveva capito Pasolini quando, all’apice della sua esperienza artistica e giunto
al capolinea della sua vita, realizza il contestato Salò o le 120 giornate di
Sodoma. Non ci interessa qui, per i nostri scopi, ripercorrere l’intensa e
complessa tematica che affronta un film “difficile da vedere”, quanto
soffermarci su un aspetto spesso trascurato dai critici, che è il significato
simbolico delle immagini “scatologiche” dell’opera di Pasolini. Immagini che
richiamano al concetto di “scarto” e di “repulsione” dei corpi diversi,
anticipando una tematica – quella della politica dell’abiezione e del disgusto
– che sarà poi largamente ed approfonditamente ripresa per i loro scopi da Iris
Marion Young Martha Nussbaum e Judith
Butler. Abietti, nella visione nazista evocata in Salò e le 120 giornate di
Sodoma, sono tutti i corpi “diversi” che minacciano la perfezione, l’identità,
le regole e i confini del proprio corpo, della propria comunità o del proprio
Stato. Sono tematiche attuali che oggi segnano, con straordinaria attualità, il
dibattito di questo tempo violento ed imprevedibile. Scrive a tal proposito
Martha Nussbaum: “… il nostro disgusto non si limita a feci, scarafaggi e
animali repellenti. Abbiamo bisogno di un gruppo umano contro il quale
schierarci che giunga a incarnare la linea di confine tra la vera animalità e
la vile animalità. Se questi esseri semi-animali si frappongono fra noi e la
nostra animalità, allora noi ci sentiamo un po’ più lontani dalla condizione
animale e dalla mortalità. Così nel corso della storia, alcuni aspetti del
disgusto – la viscidità, il cattivo odore, la sporcizia, la decomposizione,
l’indecenza – sono stati ripetutamente quanto monotonamente associati a certi
gruppi, e, in realtà, proiettati su gruppi umani rispetto ai quali i gruppi
privilegiati hanno tentato di definire una propria superiorità. Gli ebrei, le
donne, gli omosessuali, gli intoccabili, i ceti poveri, tutti questi gruppi di
persone vengono immaginati come esseri corrotti dalla sporcizia del corpo” (da
Martha Nussbaum, “Il disgusto, la vergogna, la legge, Roma, Carocci, 2005”). La
gran parte di queste considerazioni sembra caratterizzare anche nella
contemporaneità l’azione di partiti e movimenti che fanno leva su politiche
xenofobe, sessuofobe e trans/lesbo/omo/fobiche, contro tutti coloro che possano
mettere a repentaglio l’ordine politico costituito di un popolo composto da
persone bianche, eterosessuali, riproduttive e basato su una rigida distribuzione
dei ruoli, fra i generi, all’interno della società. Ruoli non "autodeterminati", in base al consenso e alla negoziazione, alla ricerca delle proprie vocazioni, attitudini, desideri e pulsioni ma "eterodeterminati" da un regime omologante che non ammette deviazioni. In
questo schema, uteri in affitto, immigrati, froci, lesbiche, trans, femministe
libertine, pervertiti e sadomasochisti divengono i nemici da abbattere o da confinare in casa, i mostri che
non vogliamo vedere o di cui non vogliamo far sapere. Judith
Butler nei suoi lavori ha largamente ripreso il concetto di “abiezione del
corpo diverso” per mettere in evidenza come il movimento femminista ne abbia
fatto un’arma rivoluzionaria e di ribellione, anche attraverso la
riappropriazione dello spazio fisico. A tale riguardo non può non essere
menzionata la più recente serie di manifestazioni contro la violenza di genere,
che va sotto il nome dello SlutWalk, iniziate il 3 Aprile 2011 a Toronto, che
rilancia la presenza fisica nello spazio per rovesciare i codici di
colpevolizzazione dei comportamenti sessuali delle donne, introiettati dalla
cultura patriarcale. L’uso del termine “slut” (troia) diviene una pratica di
orgoglio della diversità che riecheggia l’insieme delle manifestazioni espressive
e culturali femministe degli ultimi decenni del XX secolo nella moda,
nell’arte, nella letteratura e nella musica (dove le parole “girl”, “queer”,
“bitch”, ecc. vengono riutilizzate in chiave di politiche di genere dal
movimento della musica punk rock indie femminista e dalle riot girl. Il
ruolo rivoluzionario dei corpi e del sesso nello spazio fisico e politico lo
aveva compreso anche Andy Warhol, sia nelle sue opere cinematografiche,
arrivando a dire che “fare sesso è un atto politico di per sé, nel bene e nel
male”, sia attraverso la moda. “Adesso (1967) moltissimi uomini non il senso
della moda, che avevano trascorso gli ultimi due anni a dire alle loro ragazze
cosa mettersi, come dei veri frustrati, potevano cominciare a vestire sé
stessi. Era molto salutare che finalmente potessero fare quello che
desideravano. Non dovevano più fingere, non dovevano più trovare una persona
del sesso opposto che vivesse le loro fantasie al posto loro: adesso potevano
uscire allo scoperto e viverle di persona” (Popism: The Warhol Sixties, di
Warhol – Hackett 1980; trad. it.). In Women in Revolt, film diretto da Paul
Morrisey ma prodotto da Warhol che girò alcune scene, si affrontano molti temi
transfemministi – stupro, identità di genere, emancipazione, inversione dei
ruoli fra generi – segnando una discontinuità con l’opera artistica e culturale
dello stesso Warhol. Il film, descritto da alcuni come una parodia del
femminismo, in realtà ha potenzialità simboliche rivoluzionarie enormi, su cui
poco si è riflettuto, a cominciare dallo scegliere, come protagoniste, persone
non nate donne per impersonare donne, per di più emancipate (era il 1971). Al
di là di Women in Revolt, l’utilizzo del corpo in Warhol non riesce a divenire
fino in fondo un’opportunità di liberazione di tutti i generi dai ruoli
socialmente e culturalmente imposti, piuttosto rimane un tentativo di
“normalizzazione” e di integrazione dei cliché “queer” nella società americana
degli anni ’60 e ’70, finendo per subordinarli al consumismo, e quindi relegandoli
nella “conformità” all’ordine costituito, attraverso il restyling della Pop
Art. Che
il sesso fosse politico lo aveva capito Valerie Solanas quando, al culmine
della sua vita – pure devastata da traumi non assorbiti, violenze, deliri
schizofrenici e paranoici – spara a Warhol e al suo compagno. Dichiara di aver
loro sparato perché Warhol “voleva rubarle il lavoro” ma sembra sparare a
quello che la coppia rappresenta, quando diviene ostaggio anch’essa, in quanto
coppia omosessuale, di quel “mito del matrimonio egualitario” che, anziché
estendere i diritti della persona, finisce per preservare l’impianto familiare
etero – normoconformato su cui si regge la società patriarcale. Scrive a tal
proposito Lorenzo Bernini nel prologo del suo libro “Il sessuale politico”
(Edizioni ETS): “Nel suo delirio metonimico lo aveva forse già compreso (…) Valerie
Solanas, quando nel 1968 sparò ad Andy Warhol e al suo compagno Mario Amaya,
come se colpirli fosse sufficiente ad infligger un colpo mortale a
quell’agglomerato di cellule familiari che è la società patriarcale”. E’
la stessa Solanas che, sia pure molto provocatoriamente, come lei stessa ebbe a dire, scrive in
S.C.U.M.: «Il conflitto, perciò, non è tra femmine e maschi, ma tra SCUM – le
femmine dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste,
indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti, che si considerano
adatte a governare l’universo, che hanno scorrazzato a ruota libera ai margini
di questa “società” e che sono pronte a procedere speditamente oltre a ciò che
essa ha da offrire – e le garbate Figlie di Papà, passive, accomodanti, “colte”,
gentili, dignitose, sottomesse, dipendenti, timorose, mentecatte, insicure,
avide di approvazione, incapaci di sporgersi verso l’ignoto, contente di
sguazzare nelle fogne, desiderose di rimanere allo stadio scimmiesco; quelle
che si sentono sicure solo con il Grande Papà accanto, con un omone forzuto a
cui appoggiarsi e con un faccione peloso alla Casa Bianca, che sono troppo
codarde per affrontare la tremenda realtà di ciò che un uomo è, di ciò che Papà
è, che hanno fatto causa comune coi porci, che si sono adattate alla
bestialità, che nella loro superficialità si sentono a proprio agio e non
conoscono altro tipo di “vita”.” (Tratto da S.C.U.M. Manifesto per
l’eliminazione del maschio, di Valerie Solanas, edizioni Ortica, pag. 51). All’estremo
opposto, “il sesso è politico” quando difende la dignità umana, affrancando dalla strada le schiave dello sfruttamento
sessuale, liberandole dalla minaccia dei riti vudù e dalla violenza dei loro
aguzzini ma è parimenti politico, in senso restrittivo, quando le istituzioni non tutelano e non assicurano la libertà di ogni persona, compresa quella delle
sex workers, di autodeterminarsi. Tutt’al
più, in molti Paesi, resta una libertà vigilata, da “controllare e proteggere” in qualche “casa chiusa” o da tollerare,
quando non costituisce un pericolo per l’istituzione matrimoniale. Ne fanno una questione
“politica” anche le RadFems Transfobiche (le TERF), quando rifiutano qualunque
istanza femminista che non nasca dalle “donne nate donne” e dalla normatività
imposta dal sesso biologico. Sembrano ridurre la battaglia femminista, contro
il privilegio maschilista, ad una questione di “utero”, finendo per relegare le
donne dentro quegli stessi confini “binari” di ruolo, comportamento, funzione
sociale definiti dai maschi eterosessuali, padri – padroni e dai maschi
omosessuali misogini. Scrive
Paul B. Preciado in “Terrore anale”: “Negli ultimi cinquant’anni, i margini del
femminismo bianco si agitano: le femministe nere denunciano l’impossibilità di
ridurre l’oppressione della differenza sessuale e cercano di introdurre
processi di de-razializzazione e di de- decolonizzazione del corpo e del
desiderio. Negli anni Ottanta e Novanta gli omosessuali, i lavoratori del sesso
e i consumatori di droga per endovena sono oggetto della più brutale delle
repressioni somatopolitiche effettuate in un contesto di “democrazia liberale”
– paragonabili unicamente a quelle che in altri tempi furono la cattura e la
sottomissione degli schiavi africani, la caccia alle streghe dell’Inquisizione,
la persecuzione delle minoranze indigene o lo sterminio degli Ebrei. Emerge per
la prima volta un alleanza dei corpi affetti dall’Aids che sfugge alla
categoria identitaria di uomo/donna, eterosessuale/omosessuale. Altri orifizi
reclamano singolarità politica: l’ano, la bocca, l’entrata in vena. Da parte
loro le lavoratrici del sesso (Anni Sprinkle, Veronica Vera, Pony) reclamano il
diritto delle “proprietarie della sessualità”, che il loro corpo e la loro
sessualità vengano riconosciuti come mezzi di produzione che non possono essere
espropriati e gestiti né dallo Stato (che pretende di proteggerle) né da altri
agenti (papponi, mafie, trafficanti, ecc.) che cercano di confiscarli e
privatizzarli. E infine, donne e uomini trans e intersessuali incitano a
finirla con il binarismo epistemologico che obbliga all’assegnazione normativa
di ogni corpo nato a uno dei due sessi”. Eppure,
siamo ancora lontani da un approdo “non binario delle relazioni e dei
comportamenti che sia in grado di sovvertire quella esigenza di
“normalizzazione eteronormoconformata” in nome della quale, all’interno di
qualunque gruppo sociale, c’è chi si sente in diritto di scaricare sugli altri
propri mostri interiori. Ne sono, anzi, protagonisti non solo i “sospettabili”
già discriminati (omosessuali, lesbiche, trans) ma anche all’interno di queste
stesse minoranze, discriminate sulla base dell’identità o dell’orientamento
sessuale, tutti coloro che relegano il problema della “riconoscibilità” e del
“diritto ad essere” al grado di “legittimazione” conferito dallo Stato, come se
l’identità di genere, l’orientamento sessuale e relazionali ammissibili abbiano
diritto a vivere o a esistere, per diritto di nascita, o in quanto “tipizzate
dalla legge” o sancite dalla “tradizione”, in quanto scolpite nella pietra fin
dalla notte dei tempi dell’avvento della società patriarcale. Per
questo, non solo il privato ma soprattutto “il sesso è politico”; per questo
non possiamo non vivere dentro l’enorme contraddizione che esiste fra la
necessità di abbattere ogni steccato che “separa” – in base all’identità
biologica o di genere, all’orientamento (etero, omosessuale, bisex, Pan) o ad
un comportamento sessuale (vanilla, BDSM, asexual) – e l’esigenza di un
“separatismo” che, al contrario, sappia preservare spazi davvero liberi e non
violenti. Sembra
dire, a tal proposito, la Butler: “Persino nell’ambito della sessualità
intelligibile è possibile rilevare come i binarismi, che fissano i suoi
dispositivi, consentano delle zone di mezzo, delle formazioni ibride,
suggerendo che la relazione binaria non esaurisca il campo in questione. In
effetti, esistono delle regioni intermedie, regioni ibride di legittimità e
illegittimità che non hanno un nome preciso, dove la stessa denominazione viene
messa in crisi dai mutevoli, e a volte dispotici, confini delle pratiche di
legittimazione che spesso sono a disagio e, a volte, in conflitto l’una con
l’altra”. (Judith Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis editore). Ecco,
allora, che i sentimenti di abiezione, di stigma nei confronti del “diverso”
rischiano di trasferirsi dalla società eteronormoconformata a quella “non
eteronormoconformata” ed il discrimine sembra essere rappresentato da quella
legittimazione “statuale” dell’identità e dell’orientamento sessuale che pure,
spesso, il grande movimento “lgbt” sembra ricercare in nome delle “pari
opportunità”. Il riconoscimento “legale”, sociale e culturale delle unioni fra
persone dello stesso sesso non mette in crisi solamente il matrimonio
“eterosessuale” in sé, rispetto alla famiglia “tradizionale”, quanto il
concetto stesso di famiglia, quello di monogamia, quello delle forme
relazionali che la politica deve legittimare oppure no. La rilettura degli
spunti offerti da Deleuze in "Il Freddo ed il Crudele", che ci invita a riconsiderare le pulsioni sadiche e masochiste, desessualizzando "Eros", mortificandolo "per meglio risessualizzare Thanatos"; da Preciado in “Terrore Anale”; quelli della Butler in “Fare e
disfare il genere”, senza considerare il contributo, per certi versi
scarsamente intelligibile nella sua immediatezza , fornito dalla Solanas in
“S.C.U.M. – Manifesto per l’eliminazione del maschio”, più un manifesto per l'estinzione dei generi che un manifesto ginarchico, ci accompagna verso
l’esigenza di non esaurire la questione dei diritti di libertà e delle pari
opportunità, che sono in fondo diritti all’autodeterminazione, in un’ottica
binaria– seppure non eteronormoconformata –, che non lascia spazio a forme
diverse e di mezzo, in cui ci si trova ad essere, semplicemente, “diversi”. Di
qui un invito a riconsiderare le battaglie per la libertà e per
l’autodeterminazione, che fuoriescono dalla logica binaria uomo/donna e
eterosessuale/omosessuale: “(…) la teoria queer non è solo una scienza
dell’oppressione sessuale, bensì una messa in discussione radicale dei modi di
produzione della soggettività nella modernità capitalista” (Paul B. Preciado,
Terrore Anale, pag. 41, edizioni Fandango). In questo
filone non si inserisce tanto l’appello di Rula Jebreal, che chiama ad una
mobilitazione delle coscienze contro il fenomeno della violenza di genere,
facendo leva sulla “compassione” e sui sentimenti dell’uguaglianza e della
libertà, quanto la costruzione di un’alleanza tra movimenti LGBTQIA+, movimenti
femministi, poliamorosi, “non monogamie – etiche”, asessuali e sapiosessuali,
bdsmers (questi ultimi in quanto esprimono sottocultura non normoconformata,
per dirla con Gayle Rubin): un’alleanza di corpi e vite che non si riconoscono
nella politica dell’assimilazione al mainstream della sessualità conformata
“della repulsione e dell’espulsione del diverso”.
* Ang
Lee Lancelot, appassionato di Yoga,
Parapsicologia e BDSM si occupa da anni in modo attivo di tematiche queer, costruendo
ponti fra diverse forme di espressione sessuali e relazionali, come il Poliamore,
il mondo LGBTQI e il BDSM. E’ Slaveromano71 su Legami.
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